II. Marinatos.

Váyase al Carajo!” rintronò Marinatos, grattandosi l’ispida barbetta secca di salmastro. Non sanno più cosa propinarci in questa spazzatura stampata, pensò dopo aver spezzato il collo alla sua prima cicca della colazione. Era un rito, svegliarsi con il petto gelido, perché non riusciva a dormire a finestre tappate per il tanfo e la polvere delle sue stanze, e il sapore di zuppe Campbell liofilizzate e andate a male. E poi sciacquarsi la faccia dopo un sputo acidognolo, tirare fuori dal frigo del caffé torbido avanzato dalla sera prima, bruciarsi le dita col cerino che usava per dare avvio al gas con le piastrelle in cattivo stato, incrostate e sbilenche, riscaldarsene un po’ e tirarlo giù con ribrezzo, accompagnandolo con una Ducados, che sulla lingua mattutina aveva il sapore del catrame incendiato d’agosto, ed attaccare con il mesto sfogliare senza concentrazione della copia giornaliera della Gaceta de Canarias, che un morettino tutt’ossa gli avevano sbattuto sulla porta del suo laboratorio alla prime ore dell’alba. Continua a leggere